La Mola Martorelli
Si ringrazia il Sig. Domenico Martorelli per l'ospitalità mostrata durante le visite e l'Istituto Omnicomprensivo di Borgorose per la fattiva collaborazione
Nella parte più alta del paese di Santo Stefano, in località "Le Valichiere", si trova la "Mola Martorelli", l'unico mulino sopravvissuto dei dodici che una volta punteggiavano il paese sino alla località "Le Mole" di Corvaro.
Il mulino, una volta di proprietà della famiglia Colonna, è stato completamente ristrutturato
e restaurato dal suo attuale proprietario, il Signor Domenico Martorelli, nel corso dei primi anni duemila.
Le mole traevano l'energia dall'acqua deviata dal torrente Apa, nella Valle di Malito, che giungeva a Santo Stefano, attraverso un'antica opera di ingegneria idraulica romana, una galleria realizzata nel I sec. d.C.
Il nome del sito "Le Valichiere" riporta all'antico uso delle macchine ad acqua, divenute poi, tre secoli or sono, mulini, esse, infatti, erano utilizzate come gualchiere, ossia macchinari per la follatura della lana. I capi lavorati subivano, attraverso la battitura del maglio, il processo di infeltrimento, divenendo più robusti e impermeabili. Gli indumenti, tessuti dalle donne a partire dal filato della lana, avevano una maglia larga, con l'azione del maglio la trama del tessuto si infittiva al tal punto che, si potevano ad esempio, tessere camicie e indumenti intimi.
Il cunicolo romano di Monte Frontino
Le gualchiere prima e, le mole dopo, ebbero bisogno di un flusso d'acqua per far funzionare le macchine idrauliche. Questo flusso d'acqua, non essendo garantito da un fiume fu assicurato da un'opera di ingegneria idraulica, realizzata nel I° sec. d.C., dai Romani, una galleria scavata sotto il Monte Frontino, in grado di portare l'acqua dal torrente Apa, nella Valle di Malito, alla piana di Corvaro.
Quest'opera, definita dallo storico abruzzese dell'ottocento, Teodoro Bonanni, l'ottava meraviglia dell'Abruzzo Ulteriore,
venne realizzata attraverso l'uso di diverse tecniche ingegneristiche allora conosciute, tra le quali: la "cultellatio" (coltellazione) e lo "scavo
ondivago".
La prima, la "cultellatio", si utilizzava per ottenere il punto d'uscita a partire da uno d'ingresso,
gli ingegneri risalivano la montagna con paline di legno, verticali, traguardate ad un ipotetico asse centrale
del rilievo, dalla cui sommità partivano quelle orizzontali
livellate al piano di terra (si veda la figura seguente), in modo da "tracciare" l'altezza dal punto d'ingresso
sino al punto di scavalco, per poi ridiscendere il rilievo, dall'altro versante, sino all'altezza idonea
per il punto d'uscita, qui, circa 6, 7 metri più in basso rispetto al punto d'ingresso.
Riferimento bibliografico: Q4- Antiche e recenti infrastrutture della Valle del Salto a cura di Rodolfo Pagano e Cesare Silvi valledelsalto.it/
La seconda, ossia lo "scavo ondivago", permetteva ai "fossores", ossia agli scavatori, di portare
la giusta direzione adoperando una fonte di luce, posta all'imbocco della galleria, una a monte ed una
a valle del tunnel, si scavava, infatti, da entrambe le direzioni (si veda l'immagine precedente). In realtà, i romani, qui come in altri
siti, non iniziavano a scavare dai fianchi della montagna, ma da due pozzi perpendicolari realizzati a breve
distanza dai punti d'ingresso e d'uscita, e da lì scavavano dapprima verso l'esterno e poi verso l'interno
della montagna.
In effetti se si osservano alcune gallerie romane si noteranno delle piccole curve, queste erano dovute al
riallineamento con la luce proveniente dall'esterno.
Gli scavatori avevano a disposizione un'altra tecnica per risolvere il problema della giusta direzione, quella di Eupalino, il costruttore dell'acquedotto di Samo (lunghezza 1036m, VI secolo a. C.). Le due squadre provenienti da opposte direzioni potevano curvare verso la stessa direzione geografica, così una delle due avrebbe sicuramente trovato il tunnel scavato dal lato opposto della montagna mentre, l'altra l'avrebbe certamente mancato.
Le prime notizie scritte del cunicolo, realizzato nel I° secolo d.C., sotto Sesto Giulio Frontino, ("curator aquarum", sovrintendente agli acquedotti di Roma nel 97 d.C., sotto l'imperatore Nerva), a cui il monte deve probabilmente il nome, in segno di riconoscenza delle popolazioni locali, si trovano nel libro «Le antichità dei Siculi» di Felice Martelli: «Il monte Frontino presso la città di Corbione tutto forato internamente a scalpello nella pietra viva per qualche miglio, ad oggetto di aprire un canale alle varie sorgenti di acqua di quella montagna per l'irrigazione dei suoi campi, per l'uso delle sue terme, per animare i suoi mulini e per attivare altre macchine idrauliche»
La quota d'ingresso del cunicolo, nella Valle di Malito, è di 961 metri slm, mentre quella d'uscita,
a Santo Stefano, è pari a 955 metri slm, un dislivello quindi di solo 6 metri in circa 800m di lunghezza.
I romani avevano strumenti per la livellazione come il corobate ("chorobates") una sorta di telaio in legno alla cui
sommità vi era una vaschetta piena acqua, se la pendenza non era nulla l'acqua trasbordava, allo stesso scopo
i due fili a piombo legati alle estremità, sempre dell'asse superiore. Altro strumento interessante per la nostra narrazione è la "Lychina", che serviva per la misurazione delle altezze
(fonte:
www.romanoimpero.com/...).
Nel cunicolo, utilizzato fino agli anni '50 del secolo scorso, la Mola Martorelli chiuderà la sua attività nel 1956, come cisterna, venne installato tra il 1900 ed il 1905 un tubo in cotto per portare l'acqua a Santo Stefano, questo in seguito danneggiato da una caduta massi, fu sostituito nel corso degli anni '30 del '900 da un tubo in ghisa. Durante lo scavo della vicina galleria di San Rocco (autostrada A24, Roma - LAquila), anche la società CO.GE.FAR. (Costruzioni Generali Farsura) la utilizzò, attraverso la messa in opera di propri tubi, per portare l'acqua dal torrente Apa a Valle Amara.
Tornando ai mulini, nel periodo di minor risorsa d'acqua, come in quello estivo, la millenaria galleria veniva chiusa
a valle, divenendo una sorta di bottino di accumulo. Nei giorni stabiliti per la macinatura, veniva aperta una piccola
chiusa e l'acqua defluiva a valle lungo il canale, azionando a cascata i mulini. A Collefegato, dove
l'acqua aveva ormai perso
gran parte della sua forza cinetica iniziale, le due mole lì presenti, avevano un altro serbatoio
di accumulo che le serviva, racconta Domenico, lo stesso era situato dove ora vi è la rampa di accesso alla SR 578.
La "refota", ossia il sistema di accumulo della
galleria e l'acqua nel canale, proseguiva la sua corsa verso Borgorose,
dove alimentava almeno altri due mulini nel paese e, andava poi, a ricongiungersi al torrente Apa in
località Ponte Ospedale, dove nei pressi vi era un altro mulino. Il sistema di accumulo della galleria, non era ovviamente necessario
durante il periodo tardo autunnale, invernale e inizio primavera dove, come racconta Domenico, si "
macinava a distesa" (sempre, secondo necessità), l'acqua
scorreva senza interruzioni lungo il canale.
Il Mulino
I mulini ad acqua si classificano sulla base della posizione della ruota idraulica e sono suddivisi in due famiglie:
mulini orizzontali e mulini verticali.
I mulini con ruota orizzontale venivano usati nelle zone sprovviste di un flusso d'acqua costante nel tempo, come
quello di un fiume o di un un torrente, idoneo all'utilizzo della pala verticale, essi avevano bisogno per funzionare di una cisterna di
carico dove veniva accumulata l'acqua, che successivamente avrebbe azionato le macine.
Al XVII secolo (quasi 400 anni fa) risale la nascita di ben 12 mulini idraulici a ruota orizzontale, dislocati lungo il canale che dall'imbocco della galleria (quota 955m circa) scendeva verso il paese di Santo Stefano, dove erano ubicati ben 4 mulini, per poi piegare ad est, in località "Le Aie", per scendere verso la piana di Corvaro, dove erano presenti altri 8 mulini (località "Le Mole"). Il dodicesimo mulino, era ubicato a quota 860m circa. Oltre la Mola Martorelli, integra in tutte le sue parti, ben visibile è la struttura esterna del mulino Calisse, in località "Le Mole" e quella di un altro all'interno del borgo di Santo Stefano con conservata anche in essa la camera d'alloggiamento della ruota dentata.
La "Mola Martorelli" è un mulino a ruota idraulica orizzontale, la cui conservazione e ristrutturazione è dovuta all'opera, all'ingegno e alla passione dell'attuale proprietario, il Signor Domenico Martorelli, che attraverso le proprie conoscenze ha restituito il mulino a nuova vita.
La mola, continua Domenico, funzionava tutto l'anno, arrivavano oltre che da Santo Stefano, da Corvaro, da Castelmenardo, per la via e "Le lame", un sentiero di montagna (oggi parte del Sentiero Europeo E1 e del Cammino Naturale dei Parchi), da Cartore e Sant'Anatolia. I mulini, come ci dice Domenico erano tanti, per via della limitata quantità d'acqua (venivano anche da altri paesi, da quello che sappiamo a Borgorose ce n'erano solo due, a Torano uno e uno o forse due a Ponte Ospedale) e il singolo mulino non aveva una grande capacità.
L'interno del Mulino
Sotto il mulino, nel seminterrato, è presente un ambiente con volta a botte contenente la ruota dentata ("u retrecene" in dialetto), a cui è connesso l'asse di trasmissione del movimento rotatorio alle macine del vano superiore. Nella foto sotto, sulla parte sinistra, in fondo al locale, è visibile la bocchetta della canaletta in legno, da dove con foga usciva l'acqua che spingendo le palette concave del "retrecene" faceva girare la ruota dentata.
In fondo, sulla parte sinistra, si nota la canaletta in legno da dove scorgava l'acqua che avrebbe azionato la ruota dentata.
Il piano superiore
Al piano superiore, si trova la mola, con ben visibile, sulla parte superiore, la tramoggia, una sorta di grosso imbuto, dove veniva messo il cereale da macinare, le due macine, con quella superiore collegata alla ruota dentata del vano inferiore, in grado attraverso il movimento rotatorio di schiacciare il cereale su quella inferiore fissa, e la vasca di raccolta della farina.
I tesori del Mulino
La Mola Martorelli, costudisce gelosamente non solo innumerevoli tesori legati all'antica arte molitoria,
ma, anche, tutti quelli legati al mondo rurale che via via, ormai, si avviano verso il mondo dell'oblio.
Si ritrovano infatti nel locale, strumenti curiosi come "u jupe" (il lupo) che serviva a costruire corde,
un tempo di canapa, lunghe, anche, fino a 60m per assicurare i carichi sui carretti,
Domenico racconta
che il nome trae la sua etimologia dalla somiglianza data dal trasporto dello stesso a spalla, fatto di
paese in paese per soddisfare le richieste,
con quello del lupo ucciso dai lupari e trasportato a spalla a mo' di trofeo; la "raganella", uno strumento in legno che,
veniva usata dal venerdì santo quando le campane, legate, in segno di lutto per la passione di Gesu Cristo,
non potevano suonare, i più giovani con questo strumento richiamavano la gente a messa fino alla Pasqua.
La raganella veniva utilizzata anche all'interno della funzione religiosa per sostituire il campanellino.
Altro strumento citato da Domenico con funzione analoga alla raganella è la "tric trac", ossia una tavoletta
sul cui manico, sia al di sopra e sia al di sotto, erano attaccate altre due tavolette; "La spunnola", ossia
l'arcolaio, per fare i gomitoli a partire dalle matasse. Il nome dialettale spunnola, trasformato in verbo
(spunnolare) ci ricorda Domenico, viene utilizzato anche per descrivere l'andamento barcollante di una persona
ubriaca, perché la spunnola quando veniva fatta girare, oltre al movimento rotatorio si muoveva sui lati, traballava.
Il "filareglio" (filatoio) una evoluzione della conocchia e del fuso per filare la lana. La spoletta (o navetta) che
contiene il filato per tessere la trama nell'ordito, in un telaio a navetta. Il giogo, utilizzato nell'aratura,
serviva a tenere unita la coppia di buoi che trainava l'aratro e tanto tanto altro.
Durante la visita non mancano, da parte di Domenico, i racconti sulle usanze, le tradizioni, i modi di vita e l'alimentazione di un tempo ormai molto lontano, e allora si riascoltano, per i più grandi, o, ci si avvicina per la prima volta, per i più piccoli, a quella realtà contadina, oggi solo in parte conservata, dove entrano in scena alimenti come il "Pane nfrascu", ossia pane mescolato, chiamato così perché veniva fatto a partire dalla farina di granoturco nella quale veniva mischiata un po' di farina di frumento, sempre utilizzando il lievito madre; la pizza di sfrizzoli con farina di granoturco, bicarbonato e farcita con gli sfrizzoli, ossia i grumi di lardo avanzati dalla lavorazione della preparazione dello "strutto". Emergono così metodi alternativi al moderno frigorifero, ad esempio, lo strutto, che deriva dalla fusione del grasso di maiale della zona dorsale, era utilizzato per la conservazione degli alimenti (es. salsicce e soprattutto fegatelli, più delicati da conservare) e anche come surrogato del burro per la preparazione di dolci, della caciata. In alternativa le salsicce potevano essere conservate nel grano dentro l'arcone, una grossa cassa di legno con coperchio a botte, o sotto la cenere (all'interno di un sacco). Il pane, invece, veniva conservato, nell'arca, come l'arcone ma più piccola.
Il canale dei mulini
Lungo il canale dei mulini, così come per il tratto del fosso di Caramanna, sotto la Rocca di Corvaro (si veda anche San Francesco e Corvaro), le donne portavano i panni per il ripasso dopo la "bucata", i panni, infatti, almeno dalla sera prima venivano sottoposti ad un trattamento con la cenere disciolta in acqua bollente (liscivia), che veniva messa sui tessuti disposti a strati all'interno di una "cassetta" di legno, al cui interno veniva messo un primo strato di capi da lavare, si aggiungeva la liscivia con una brocca e poi si inseriva un secondo strato di panni e così via. Solo più tardi, in queste zone, arriveranno i lavatoi pubblici e i saponi fatti in casa con il grasso di maiale e la soda caustica, al principio limitati alle famiglie più ricche, il grasso di maiale andava conservato per usi alimentari. D'inverno, narra Domenico, le donne si portavano dietro la "pignata" (pentola di terracotta) con l'acqua calda per scaldarsi, ogni tanto le mani. Il succitato fosso di Caramanna si ricongiungeva anch'esso al canale dei mulini nei pressi dell'allora località Ponticello, sulla strada che da Corvaro porta a Borgorose, poco prima della sede della Riserva, denominata così per la presenza storica di un ponte sul canale che ne permetteva l'attraversamento.
Bibliografia
- - Felice Martelli: Le antichita' de' sicoli primi e vetustissimi abitatori del Lazio e della E Della Provincia Dell'Aquila (1830)
- - Q4- Antiche e recenti infrastrutture della Valle del Salto a cura di Rodolfo Pagano e Cesare Silvi su valledelsalto.it/